AFFABULAZIONE ATTORNO A PASOLINI (I)

di Antimo Mascaretti

Qualche settimana di pausa sono necessarie al prosieguo di “Prove d’autore (per mano sinistra), per permettere la pubblicazione di un ricordo di Pasolini, nell’imminente ricorrenza della sua morte.

Quando si diffuse la notizia della morte, ricordo ancora nitidamente i titoli di prima pagina dei quotidiani di quel giorno, mi accingevo a godermi un altro giorno di libertà, dopo ben ventiquattro mesi di ferma militare obbligatoria nella Marina Militare. Il giorno 30 ottobre 1975, tra l’altro giorno del mio compleanno, era stato l’ultimo giorno effettivo di ferma, il 31 era stato speso per il viaggio di ritorno a casa, e dunque quella mattina del 2 novembre mi sentivo come chi è uscito da una situazione di costrizione durata a lungo che non aveva potuto evitare in alcun modo. I miei tanti progetti mi apparivano illuminati da una luce vaga di fiducia verso un futuro che però era altrettanto fumoso ed incerto.

E’ difficile, a distanza di ben quarantadue anni, per chi non ha conosciuto il particolare clima di quegli anni nel nostro Paese, farsene una idea dalle sole cronache di storia. Pensare di potersi immaginare lo shock di noi giovani di allora che reputavamo essere, con non poca presunzione, “intellettuali impegnati”, è impossibile. Quella scomparsa, per di più in modo atroce e violento, generò per molti, me compreso, un grande disorientamento.

Nell’Italia dei netti schieramenti contrapposti, dei Comuni, delle contrade delle fazioni, degli odi, delle violenze politiche e morali, l’Italia di sempre insomma, Pasolini rappresentava, pur nelle sue tante contraddizioni (o forse proprio per quello), nella sua libertà e negli scandali procurati ad arte dai suoi tanti persecutori e detrattori, un punto fermo, una “lucciola” di intelligenza molto scomoda, per tutto il potere, per quel “palazzo”, (felice definizione dello stesso poeta, che poi ebbe gran fortuna), che il poeta incalzava con articoli, considerazioni polemiche, opere poetiche e scritti saggistici, sempre pronto ad individuare e cogliere il punto più debole, più doloroso, di una violenza che non si manifestava sempre apertamente, ma che correva ugualmente nella consapevolezza di molti nella storia di quegli anni. Fu per tutti, anche per chi allora non ne aveva chiara visione, una perdita insostituibile quella morte. Da allora, si avverte un vuoto culturale che il paese non è stato mai più in grado di colmare.

Questo ricordo della “vita breve di Pasolini” (per citare il titolo di un bel libro del cugino del poeta, Nico Naldini), non ha la pretesa di analizzare in dettaglio l’importanza dell’opera del poeta. Mille testi si sono occupati di questo argomento, ed altrettante tesi di laurea, al punto che una analisi in poche righe sarebbe, oltre che pretenziosa, anche del tutto superflua. L’opera è davvero vasta, spaziando dai romanzi, gli scritti critici letterari, gli scritti per il cinema, gli interventi sulle riviste come “Officina” o “Nuovi Argomenti”, la poesia, il teatro, il cinema, in qualità, prima di sceneggiatore e soggettista, e poi di regista. Davvero un lavoro impensabile se si tiene conto del breve lasso di tempo in cui è stato portato avanti.

Qui possiamo solo tentare di mettere in evidenza, dando per scontata almeno la conoscenza sommaria delle opere principali del poeta, ciò che, di tanto lavoro, ancora rimane vivo, come una piaga aperta nel nostro malessere odierno, per scoprire magari, come le radici di quel malessere, morto Pasolini, affondano oggi nel più tetro conformismo, nella chiacchiera giornalistica opportunista, nel vuoto mentale dei talents, dei quiz, dei ”tempi che fa”, dei Sanremo e delle miss culi all’aria, dei “social”, vuoto generato da quel trionfo del consumismo rivelatosi una grande iattura per quell’omologazione totale, in ogni aspetto della vita sociale, che alimenta implacabilmente come malattia “necessaria” al suo esistere.

Non voglio parlare della morte di Pasolini, come fatto di cronaca nera. Si sono scritte pagine di riviste di giornali e interi libri, su quel fatto, Pelosi detto “la rana”, che all’epoca era poco più di un ragazzo disadattato, un ladruncolo insignificante, divenne un personaggio per essere stato l’assassino del poeta. Passato il clamore della cronaca, scontata la pena, abbastanza lieve, data la minore età, Pelosi continuò il suo alternante itinerario dentro e fuori di galera, fino alle presunte rivelazioni “clamorose”, vent’anni dopo la morte del poeta, in una trasmissione trasmessa dalla RAI, in cui si dichiarò improvvisamente, con un colpo di scena (che senza dubbio gli avrà fruttato un congruo gettone di presenza), innocente del delitto, imputando altre fantomatiche persone, barbute e con accento siciliano, che compiuto l’assassinio, lo avrebbero minacciato di morte(assieme ai genitori), in caso di delazione. Tutto il nuovo clamore finì però, in un nulla di fatto, Pelosi scomparve di nuovo dalla cronaca fino a ritornarci, qualche tempo fa, non molto, in due righe che annunciavano la sua morte, prematura, per tumore alla prostata. Gli avvenimenti che portarono Pasolini alla morte sono arcinoti. Libri e inchieste più o meno di parte, hanno narrato gli avvenimenti, molti hanno tentato per svariati anni di farsi luce alla fiamma di Pasolini, elucubrando interpretazioni surreali e fantasiose, in tal modo hanno ottenuto gratuitamente un po’ di notorietà, ed anche un bel po’ di denaro. Ma pochi hanno capito l’importanza dell’opera del poeta, dell’intellettuale, dell’artista. Pasolini fu dichiarato “profeta” dai giornali “benpensanti” in analisi politiche anche comiche. Profeta, per aver intuito, con grande anticipo sui tempi, e con grande lucidità, la trasformazione epocale, il mutamento antropologico a cui si accingeva il nostro paese, e gran parte dell’occidente. Anche quella definizione è un fraintendimento di chi prima non ha voluto capire e dopo non ha voluto vedere pervicacemente. Della polemica che Pasolini ingaggiò con l’avanguardia di allora, basta dire che di quella “avanguardia” nessuno più si ricorda, forse neppure nelle pagine di storia della letteratura, c’è traccia di quegli “avanguardisti”, illusi e noiosissimi, mentre Pasolini, pur nell’oblio che si è ritenuto opportuno far calare sulla figura dell’intellettuale, è, sempre, per chi vuol capire la realtà, il “convitato di pietra”. La polemica con gli studenti del ’68? Pasolini li accusava di essere i figli privilegiati di piccoli borghesi. Aveva ben ragione: tutti i più noti di essi, non facciamo nomi per carità di patria, si sono integrati totalmente, hanno fatto soldi, avuto prebende, carriere, e ruoli, benché insignificanti per i loro esigui meriti personali, nel giornalismo, nella scuola e nella politica. Oggi, a guardarli, (loro e i loro degni figli), sono molto peggio dei padri, che pure dicevano di contestare (a chiacchiere e a colpi di chiavi inglesi, e qualcuno, più stupido, pure con le pistole…). Il rapporto con la sinistra e segnatamente col PCI di allora? L’atteggiamento della sinistra nei confronti del poeta, se si eccettuano i comportamenti di poche figure a titolo personale, fu di totale conformismo. Pasolini fu lasciato solo davanti ai suoi detrattori, i borghesi ottusi (fascisti è parola grossa per quella gente…) e cattolici integralisti, (perché paradossalmente, specie dopo “Il Vangelo secondo Matteo” alcune gerarchie cattoliche intellettuali, difesero il poeta con più foga di chi si dichiarava, allora come ora, “progressista”, ed intendeva in realtà, il progresso delle sue entrate economiche). I bizzocconi, i borghesi zelanti, lo linciarono in un numero impressionante di processi, uno più ridicolo dell’altro, il PCI non lo difese, o non lo difese mai abbastanza. Il partito era infastidito dalla dichiarata, aperta omosessualità del poeta, e prese sempre imbarazzate distanze, nonostante il poeta continuasse a dichiararsi in ogni occasione, comunista e “compagno di strada” di quel partito, che lo aveva espulso per “indegnità”, per la sua omosessualità, negli anni del dopoguerra, e che già aveva cominciato ad accumulare, in quantità industriali, il veleno dell’ipocrisia dei disorientati, che lo avrebbe tramutato, attraverso camaleontiche giravolte e cambi di nome, in quel niente che oggi tutti conosciamo, con a capo un giovane provinciale arrogante. Appena morto però, tutti tirarono letteralmente i brandelli del poeta dalla loro parte, persino la destra, che non ha avuto né il coraggio di mantenere apertamente i legami con la propria tradizione, né quelle opinioni, nel tempo mutate radicalmente, contro Pasolini, e dire apertamente che non si era capito nulla, in quelle contrade, né del dramma di quell’uomo né della sua opera, quando si organizzavano aggressioni e gazzarre davanti ai cinema in occasione di proiezioni di alcuni film di Pasolini (mi capitò di assistere personalmente a Roma, ad una cosa indegna di questo genere), e persino al festival del cinema di Venezia. Gazzarre incivili e vergognose. Cose tipiche dell’Italietta di sempre, anche queste. Dove non si capisce, dove il cervello non assiste, ed è solo un piano ricurvo per appoggiare i capelli, dove c’è da andare un po’ più avanti del pallone, e delle canzonette “impegnate” a far soldi, un po’ più in là dei “grandi fratelli”, delle “veline”, allora si ribaltano i tavoli e si imbrattano le vetrine, quando va bene.

Gli specialisti di letteratura, gli storici del cinema, e del teatro, faranno il loro lavoro per collocare il poeta nella giusta dimensione. A noi interessa l’influsso pasoliniano sulla società, ed anche nell’arte, cosa ne è rimasto e cosa abbiamo perduto. Capire se Pasolini e stato solo un poeta nostalgico di mitologie immaginarie, di un mondo estinto di fronte all’avanzare del consumismo capitalistico, un poeta dunque, “reazionario”, come spesso fu tacciato da sinistra, una figura confusa e anacronistica, o se invece fu l’intelligenza più lucida di mezzo secolo di storia italiana, un artista ben più avanti di chi allora si credeva lungimirante o peggio si dichiarava “rivoluzionario”.

(Continua)

23/10/2017, Antimo Mascaretti

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