TECNICHE DI RISVEGLIO PER ATHENA (XIII)

di Antimo Mascaretti

( continua…)

Il nostro comprendere (una pittura o un evento di molto tempo addietro), è reale o entriamo solo nei dettagli di ciò che è raffigurato, magari con l’aiuto dello storico dell’arte o del critico? (Subendo in tal modo, una diretta suggestione da parte di un intermediario). Io sono convinto che, con il necessario bagaglio, la comprensione possa avvenire senza alcun dubbio, per ciò che è l’essenziale del dipinto, al di là della semplice percezione del soggetto e dell’attribuzione a questo o a quell’altro autore.

Si tratta di una comprensione “di verità sentimentale”, la stessa che permette di sentire la poesia di Dante, nonostante i secoli trascorsi, o di condividere la sorte dei personaggi di una tragedia di Euripide, o di un dramma di Shakespeare o di una commedia di Molière. Si suole dire di una pittura: “E’ bella”. Cosa si intende in questi casi? Non credo si tratti soltanto della percezione di rapporti di armonia in un dato dipinto. Anche in questo caso l’osservatore fa sua, magari inconsciamente, la definizione di Kant nella terza critica, che richiama alcune definizioni medievali sullo stesso tema, dove “l’arte” non è la rappresentazione della bellezza, ma la bella rappresentazione di una cosa.

Quando una pittura o un’opera d’arte è riuscita sul piano artistico? Quando permette che l’oggetto (la pittura) riattivi la “simpatia” (un vibrare comune, potremmo tradurre), di richiami psichici, l’attrazione o repulsione emotiva e sentimentale, ogni volta suscitando un desiderio di elevazione spirituale in un osservatore che le si pone davanti, al di là del tempo e delle contingenze, e questo nella maniera più “universale”.

Ciò che è sempre ripristinabile come al primo impatto, nonostante le diversità culturali e l’elemento tempo che le determina e le modifica, ciò che è indifferente a quelle variazioni è la conoscenza artistica.

Ciò che, sia pure nella fragilità di un sapere “troppo umano”, permette di capire l’essere (in senso di esistere) delle cose, delle passioni, dei sentimenti e la loro verità immutabile intrinseca, io chiamo il fine ultimo dell’arte pittorica (e di qualunque altro mezzo espressivo).

Dunque l’arte è conoscenza….

Nella storia del pensiero speculativo non c’è mai stata, come è noto, fino ad oggi, una definizione di ciò che è propriamente “arte”, però, che l’arte costituisca una forma particolare di conoscenza si ritrova nella concezione dell’esperienza artistica di quasi tutti i pensatori di qualsiasi epoca, fin da Platone che, ed è notissimo, condanna l’arte ed è costretto ad escluderla dalla Polis ideale, proprio perché conoscenza fallace in quanto “copia della copia” dell’Idea.

Tutte le riflessioni alla fine ruotano attorno all’interpretazione del concetto di mimesis, che non può essere certamente ricondotto alla semplice idea di “imitazione”.

Nella mia esperienza pratica della pittura, sono arrivato a sentire come più vicino alla verità il considerare il termine “mimesis” come “modo di far vivere l’oggetto della pittura in funzione conoscitiva”. Mario Motta, qualche anno fa, dette una interpretazione molto vicina a quello che io ritengo sia il modo più autentico di tradurre mimesis, egli lo tradusse con “rappresentazione conoscitiva”, in un libro assai interessante, anche per una rivisitazione dell’estetica di Benedetto Croce.

Va detto però che da tempo c’è un altro modo di interpretare ciò che è arte senza più fare riferimento all’aspetto mimetico in tutte le sue accezioni…su questo campo (che necessiterebbe di ben altri approfondimenti) la battaglia infuria dall’inizio del ‘900!

Cosa c’è da dire sulla pittura di ritratto oggi?

Non saprei rispondere con precisione a questo interrogativo. Io ho in genere, dipinto figure che in qualche caso, sono riconducibili a persone identificabili. Il ritratto mi ha appassionato per anni, ma nel senso di dipingere l’interpretazione intima di una persona, capirne la complessità, i mille aspetti celati dall’apparenza esteriore. Se prendo in considerazione tutto quanto ho dipinto fino ad oggi, noto che in rare occasioni mi sono allontanato dalla raffigurazione di figure umane. Ciò vorrà pure significare qualcosa.

Ho avuto una educazione profondamente cattolica. Per liberarmene, ho dovuto lottare molto in un dissidio interiore durato anni, non so bene fino a che punto sono riuscito a liberarmi da quelle idee nefaste almeno per me. Ciò mi ha condizionato molto anche nel ritratto.

Oggi posso solo dire che non sono cattolico e non ho interesse per nessuna delle altre religioni organizzate, però, ho impegnato anni di studio e di riflessione per diventare un pittore religioso.

Una concezione spinoziana, la mia, che nulla ha a che vedere con le religioni comunemente intese.

Guardare la natura e l’infinita immaginazione che mette in atto, costringe a diventare umili, a riconoscere la piccolezza del nostro fare. Essere permeati da una visione religiosa dell’universo non significa aspettarsi premi o castighi o comunque qualcosa in cambio, ricercare un destino alla propria finitudine in una credenza ultramondana. E’ solo un dimensionarsi opportuno nel proprio modesto ruolo, anche quando si tenta di cogliere la verità di un’anima, che può essere facilmente un atto di arroganza, e sarebbe un errore fatale per un artista.

Si impara nel tempo, a controllare l’esuberanza della propria personalità. Oggi si tende, al contrario, ad esaltare questo aspetto psicologico, ad enfatizzarlo, per un pittore sarebbe invece oltremodo importante tornare il più possibile anonimo, alla maniera degli artisti medievali. Saranno forse un domani, le nostre opere, se dureranno al tempo, a gridare sommessamente il nostro nome ed il nostro ruolo nella costruzione dell’edificio della conoscenza artistica, come è sempre stato nei secoli per i colossi della pittura e dell’arte. Allora, molto lontano dal tempo che ci vede vivere, le chiacchiere non varranno molto, conterà solo la qualità dell’opera.

E’ questo il motivo per cui non firma i suoi lavori?

Non è esattamente vero che io non firmi i miei quadri. Li firmo sul retro della tela insieme alla data ed al titolo. Anzi, da anni ormai adotto la formula: f. a. “fecit anno” e segue la data, come molti pittori di un tempo. La pittura è un rituale antico, qualcosa di prezioso che dobbiamo conservare. Al titolo dell’opera attribuisco una importanza estrema, una sorta di viatico porta fortuna, come se si trattasse di scegliere il nome per un figlio. Lo scelgo sempre dopo un po’ di tempo, mi lascio suggestionare dall’opera quando essa stessa suggerisce finalmente nuovi orizzonti di interpretazione a cui non avevo minimamente pensato. Curioso, non crede? Eppure con questo “metodo” ho trovato titoli molto icastici.

L’ossessione mercantile per la firma mette in evidenza come il nome di un artista finisce per avere più valore della stessa opera, ciò è semplicemente ridicolo (sempre stupido, a volte anche comico). Le opere spesso, sono veramente poca cosa, solo elucubrazioni penose, quattro segnetti da diversamente abili. Si compra la firma. Che idiozia!

Duchamp, che dicono fosse un artista molto intelligente, compì scelte molto discutibili a mio parere. Forse pensò più semplicemente, che il clamore di certe realizzazioni potesse essere l’unico modo per far parlare di sé, per esaltare il suo nome, dovendo vivere come contemporaneo di artisti veramente geniali. Da allora purtroppo, sono veramente temibili “i nipotini”, di Duchamp, innumerevoli, tutti a lui si ispirano per le loro opere misere.

Perché spesso ha dipinto per cicli?

Quanto qualcosa mi incanta, cerco di darne versioni diverse, finché il sogno perdura. Attraverso il ciclo si apprende meglio come l’arte e la filosofia hanno lo stesso oggetto ma due modi diversi per metterlo in luce.

(Continua)

05/06/2017, Antimo Mascaretti

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