Malessere sintomatico, ovvero: la fune

di Antimo Mascaretti

In oltre cinquant’anni, pur tra innumerevoli difficoltà, ho sempre mantenuto fermo il mio stato d’animo su ciò che ho sempre avvertito come: “ciò che dovevo fare”. Una fiducia di fondo, nonostante il mio temperamento malinconico, mi ha sempre assistito nelle mie creazioni. Fiducia nel senso dell’arte, così come nella necessità della stessa nel corso dell’esistenza. Non ho mai fatto distinzioni tra mezzi espressivi, la pittura è sempre stato d’istinto, il mio mezzo d’elezione, ma mi sono sempre trovato a mio agio nel teatro, e dunque nella scrittura teatrale, come nella letteratura, che è stata la mia costante compagna per far chiarezza a me stesso su come interpretare ciò che la mia visionarietà mi suggeriva e mi chiedeva di controllare. Intendiamoci, un pittore non deve necessariamente avere tante esigenze e meno che mai le mie stesse esigenze, per essere un ottimo artista. Ma ognuno, nella vita, ha il suo destino, e aggiungerei, la sua strada stretta attraverso la quale passare. Questa necessità determina, in ogni tempo, le differenze tra gli uomini e ovviamente tra gli artisti.

Accade in me, da qualche tempo, di constatare un minore interesse, non nella pittura in sé, ché è sempre uguale la passione che ad essa mi muove, passione misteriosa e inspiegabile a parole, piuttosto vi è in me uno scarso interesse, quasi nullo in verità, a mostrare, ad esporre e far conoscere le mie esperienze, indicibili altrimenti se non in forme inusitate e certo non sempre facili ad intendersi, almeno ad un primo approccio.

Mi sono chiesto in varie occasioni perché accada questo fenomeno che mi relega come artista, come pittore, in una sorta di ulteriore, volontario anonimato al quale tuttavia, tento di sottrarmi per non rendermi ancor di più irrintracciabile, peccato mortale per un artista, come si sa, per la nostra epoca sciocca e superficiale.

Una sorta di insoddisfazione insuperabile mi prende nel ragionare sull’attuale rapporto artista – pubblico, un rituale dell’arte che certo, è molto mutato negli ultimi decenni.

Ma non è solo questo. Ne sono certo. L’insoddisfazione, il disagio, si estende a ben altre evidenze che non sono avvertibili solo in occasione di una mostra d’arte. E’ come se avvertissi esservi da una parte un pubblico che si muove come cavalli in un recinto fragilissimo, ma bastevole alla bisogna, costituito soltanto da un ostacolo risibile. Una sottile fune.

Allo stesso modo dei quadrupedi, fermi a quel minimo ostacolo, quel pubblico oggi sembra intendere l’arte (e a ciò è abilmente indotto da chi ha interesse a farlo), come una fantasmagoria, uno spettacolo pirotecnico, un trucco magico come in certi spettacoli di innocente illusionismo. Comunque un evento, sarebbe l’arte, sfarzoso e del tutto marginale, depotenziato, che non ha più un vero rapporto con l’esistenza di ciascuno, sarebbe l’arte appunto, un qualcosa che per quanto possa stupire, rimane ben al di qua del recinto, anche il più labile, l’equivalente della risibile fune. Una fune fittizia, costruita da un’economia altrettanto fittizia e persino più stupida e ridicola ma molto temibile, perché ottusamente rispondente solo a criteri di utile a qualunque costo (a vantaggio di un numero esiguo di persone o oscure, anonime organizzazioni finanziarie). Ne derivano un’etica ipocrita e strumentale, abitudini sociali omologate e miserevoli nella loro povertà di espressioni, comportamenti da allineati e servili subalterni indebitati all’inverosimile, poveri individui dediti alla pura sopravvivenza, o peggio ad un edonismo vitalistico irrazionale e del tutto immotivato da disperati, nel quadro di un universo chiuso, delimitato proprio da un cielo di “stelle fisse” generato da quel sistema economico che si è voluto e si vorrebbe ostinatamente esteso ad ogni parte del mondo, anche se ciò stravolge la vita e le abitudini che magari da millenni altrove, hanno determinato il corso degli eventi e l’esistenza di milioni di persone. Tutto questo con minacce, ricatti economici, “sanzioni” pretestuose e mal celate, crisi monetarie create “opportunamente” al momento che si vuole, da un sistema strangolante.

Tutto questo nelle “colonie” come l’Italia, e ancor peggio, in Europa, appare normale, tutto questo è accettato come qualcosa che non ha alternative. La storia del mondo in fatto di economia applicata, non presenta, da decenni, per quanto si può constatare, alcuna evoluzione se non in forme peggiorative dell’esistente, e questo inverosimile, appare il “migliore dei mondi possibili”. Intanto, in cambio della nostra pedissequa subalternità ad una mentalità e ad una visione del mondo diabolicamente distruttiva, e autolesionistica, abbiamo un sistema sociale sempre più ingovernabile e con sacche di violenza inaudita, un vivere degradato, imbarbarito progressivamente verso forme primordiali di esistenza che si pensavano a torto, definitivamente superate. (Per non parlare del terrorismo che certo, ha attinenza non incidentale col nostro discorso). In parole povere, una vita grama, povera non tanto nei beni inutili e senza scopo, ma in quel poco che è rimasto dello spirito, e nella frustrazione dell’intelligenza. Una vita povera di orizzonti. Ci si scandalizza, e giustamente, per la morte di decine di persone per un tragico incidente, qualunque esso sia, un ponte che crolla, escursionisti travolti, incidenti di alta montagna etc. e però, si ritiene normale”, al di là delle chiacchiere, di fatto accettabile, che nella civilissima Italia muoiano ad esempio, quasi quattrocento donne, in sei mesi, per mano violenta di chi asseriva di amarle, o che spariscano”, migliaia di persone, spesso bambini, senza che nessuno ne sappia più nulla, e se ne preoccupi come fatto sociale emblematico, e questo senza funerali di Stato e parole retoriche di circostanza.

Quando questa realtà mi viene scagliata in faccia dai media quotidianamente, il mio malessere aumenta, e se torno alla mia arte, o visito una mostra e rivedo quel pubblico indifferente e spento che guarda senza guardare, quella gente che vive, come tutti, in un mondo logico, ma senza senso, ripenso alla fune.

Perché al di là della fune rimane tutto il mondo delle possibilità, tutto il mondo dell’immaginazione, delle conquiste, tutto il mondo di ciò che potrebbe essere e non è, in questa barbarie civile e ipocritamente vomitevole.

Non c’è più un progetto. Questo è il vero dramma, non c’è solo il problema del lavoro o delle difficoltà economiche dei molti, che non sono in grado più di vivere dignitosamente, il problema è che non si ha più neppure il coraggio di pensarla un’alternativa, di progettare un vivere differente. Il problema non è la moneta, il problema vero è: il sistema. Quindi, non c’è più da tempo, un autentico, alternativo, progetto politico. A questo pubblico che mi guarda indifferente e senza lampi di vitalità autentica, dovrei presentare le mie creazioni, ma a che scopo, davanti a questi limiti che minacciano e incorniciano l’esistenza? Non sento una necessità vitale per farlo.

Con questi interrogativi, mi imbatto in un brano dello “Zibaldone”, scritto nel luglio 1820:

“…la mutazione totale in me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può dire dentro un anno, cioè dal 1819, dove privato dell’uso della vista e della continua distrazione della lettura, cominciai ad abbandonar la speranza, a riflettere profondamente sopra le cose…. A divenir filosofo di professione (da poeta ch’io era), a sentire l’infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore corporale, che tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai moderni…”

Dunque sentire, come indica il Leopardi, l’infelicità certa…in luogo di conoscerla solo a parole. Tradizionalmente i momenti dell’esperienza estetica sono Poiesis, Aisthesis, Katharsis. In un contesto come il nostro, in cui la sintesi è quanto mai necessaria, credo sia opportuno fermarsi a considerare il significato del momento della Katharsis. In un’epoca quale la nostra, dove la comunicazione è considerata caratterizzante, sia pure una comunicazione manipolata più di quanto si pensi e abilmente incanalata in modi, benché tecnologici, tutto sommato affatto convenzionali nelle forme, nelle risposte e nelle abitudini,(e questo è voluto, non è certo una casualità), l’esperienza della comunicazione estetica, il contatto con l’arte, dovrebbe ancor di più assurgere ad un momento di conquista di un margine imprevedibile di libertà autentica, magari proprio in opposizione al conformismo alienante del flusso delle altre forme di comunicazione.

Attraverso l’immaginario, l’artista permette la creazione di uno spazio ricettivo che si configura come momento sì, di godimento, (sul significato di questo termine riferito al contatto con l’opera d’arte occorrerebbe ritornare), ma anche di riflessione critica contro lo stesso ordinamento esistente quando si rivela all’analisi strumento di addomesticamento delle coscienze. Purtroppo ciò che si definisce molto genericamente con un’espressione ben priva di autentico significato, il “sistema dell’arte contemporanea” non risponde a nessuna delle condizioni che possano determinare quello spazio di liberazione estetico perché al contrario, l’uso continuo di metafore, allegorie, simboli, in maniera sconclusionata e senza alcun nesso concreto, senza una precisa coerenza interna, determina un continuo “non senso” estetico, ma anche un non senso logico, (i segni sono le basi di un linguaggio, che se rimane incompreso, per insufficienza, non è più tale).Ne deriva un complesso apparato di rimandi pretenziosi, che necessita di un manuale esplicativo ponderoso ( il solito catalogo d’occasione), che lascia intendere come nulla ci sia in realtà, di autentico, all’interno di ciò che appare e viene presentato come “opera”, senza tutte quelle azzardate spiegazioni che non spiegano alcunché. L’arte contemporanea si può senza dubbio definire come “arte anestetica” nel senso più letterale del termine, oltre che annoiare mortalmente, addormenta le coscienze già ottenebrate da tempo, dei fruitori.

Gran parte dell’arte contemporanea è una raffinata forma di sdilinquimento ludico, una forma stucchevole di accademia, ripetuta e variata attraverso trovatine esili, all’infinito, da chi (e purtroppo si tratta in gran parte di giovani), non ha nel proprio spirito nulla di “originario” e originale, da esprimere. Accademismo che non aspira altro che allo “spettacolo”, al mercato, alla rappresentazione, elaborata e confusa, che dovrebbe sorprendere, chissà perché, attraverso barocchismi e un tentativo costante di imbellettamento del nulla. Acquisita una “credibilità”, autoreferenziale, che il sistema di potere volentieri concede, in quanto serve al mantenimento dell’attuale situazione ingessata da tempo, ch’è oltremodo favorevole al mercato, l’arte contemporanea è certamente la degna arte dell’attuale regime di potere che ha nel profitto la vera centralità. Come esempio perfetto, a mio avviso, di quanto detto più sopra, voglio citare due esposizioni lontanissime geograficamente l’una dall’altra, ma a mio avviso, simili nello spirito che le anima. (Esposizioni che comunque invito, chi ne ha occasione, a visitare, perché è sempre importante fare esperienza personale di questo genere di eventi, gli occhi sono, non dimentichiamolo, le “avanguardie di ogni filosofia ed estetica”). La prima è “Machines a penser”, a Venezia negli splendidi spazi della potentissima Fondazione Prada, (mostra visitabile fino al 25 novembre), e l’altra invece a Catania, Palazzo Biscari, mostra terminata il 18 di agosto, dal titolo “Il mio cuore è vuoto come uno specchio” di Gian Maria Tosatti. Nella prima si prendono a pretesto i nomi di tre grandi filosofi del Novecento, lontanissimi tra di loro, si tratta di Martin Heidegger,Theodor Adorno, e Ludwig Wittgenstein, ma, in questo contesto, si potevano prendere anche tre qualunque Fracazzo da Velletri e sarebbe stato lo stesso, perché la filosofia di costoro ( tra l’altro molto complessa e di non facile comprensione), non c’entra nulla, infatti la mostra gioca con un allestimento, chiamiamolo architettonico, sul tema o meglio “esperimento mentale curatoriale”, che si lambicca sulle nozioni di fuga, di rifugio, di esilio, attribuendo ciascuna definizione ad un filosofo di quelli nominati (chissà perché, se non per il richiamo che quei nomi possono procurare, dato che sono concetti molto comuni, e facilmente riscontrabili nella vita di milioni di persone nel corso di un’esistenza). Alla fine si gioca anche con molto altro, tanto per riempire, ma, giocando e alludendo, ciò che dispiace di più per me, è vedere un’opera di Anselm Kiefer, artista che negli anni ottanta mostrava ben altra vitalità, pur nella “pesantezza” propria dell’arte tedesca di sempre,(pesantezza che non vuol dire mancanza di efficacia beninteso), che presenta in questa occasione, dei mattoncini penosi che circondano una riproduzione di cervello umano. L’allusione sarebbe alla teoria platonica del soma, sema, il corpo è prigione della mente etc. Così, via via, per altre infinite allusioni e rimandi, l’esposizione si avvita nell’astruso banale.

Gian Maria Tosatti, che finora si è contraddistinto più per il grande movimento che fa per farsi notare, a tutti i costi,( ma è l’attività precipua di ogni artista di oggi), da qualche importante galleria (e pare proprio ora ci sia riuscito), più che per le “opere” realizzate, in quest’occasione fa un fricandò di Ingmar Berman, Luchino Visconti e pensate, addirittura Pasolini, (Mi chiedo, ma è una cattiveria,lo ammetto, vorrei constatare che cosa ha capito( e letto, e visto…), di Pasolini e degli altri, Tosatti), per allestire in uno splendido palazzo barocco, appositamente riaperto per questo “evento”, (e qui si vede la “potenza” e la credibilità certa,dell’organizzazione mercantile che c’è dietro), quello che lui chiama “un sepolcro della nostra civiltà” e ciò lo ha portato a riempire parte dei locali, di sale. La cosa pare, continuerà, con altre trovate, dello stesso livello inventivo, in altre importanti sedi in Europa… Come si può capire, qui ancora una volta, si prende a pretesto cervelli ben funzionanti altrui, citandone vanamente i nomi, per cercare di dare una smossa alla paresi del proprio.(ma alla fine…tutti ai rinfreschi!).

Due esempi, ma potrei citarne una decina, soltanto rimanendo alle esposizioni allestite per la sola stagione artistica, un po’ in tutta Italia. A mio avviso si brancola nel vuoto, evitando di affrontare le problematiche che, sole, possono avere un autentico sviluppo artistico significativo. Ma evidentemente, è più facile, ed anche più alla moda, seguire questa diffusa “maniera”, di operare, sia pure effimera e velleitaria.

Nella mia poetica invece, io mi appresto a concepire, ogni volta, i miei lavori quasi come scene teatrali, nelle quali si è svolta, si svolge o si svolgerà presto, l’azione di un “attore”, cioè d’un soggetto che agisce, il soggetto dell’opera. Concentrando il mio intervento creativo sulla constatazione della dolorosa condizione dell’esistenza umana, riprendo il tema della “tragedia” al modo dell’antico teatro classico greco, con delle varianti assolutamente imprescindibili, una in particolare: quella della profonda tragedia del vivere stesso.

Nella tragedia greca basata sullo scontro con l’imponderabile, rappresentato dalla natura, affiora costantemente l’esigenza di ordine e giustizia, ma è solo dopo il Cristianesimo che al concetto di ordine si impone come prevalente, il concetto di libertà. La consapevolezza della libertà, riporta la prassi nella storia. La possibilità, anzi, per il cristiano il “dovere”, di agire. (A questo agire, ha dato certamente un forte impulso ideologico ovviamente la teoria marxiana che ha stravolto gli eventi dell’ultimo secolo, assieme ad altre ideologie di massa). La consapevolezza della propria libertà, prima di tutto, di coscienza, è rimasta intatta nell’uomo, anche se nel tempo, egli si è in gran parte liberato dell’impostazione religiosa originaria, ed ora appare costantemente nella sua libertà, solo e nudo, angosciato e paralizzato di fronte alla propria inevitabile morte che cerca di esorcizzare.

Questo è lo scenario mentale di fondo in cui io situo le mie opere. Al di là dei diversi cicli d’occasione, rimane in ogni caso costante questo evocato rapporto cruciale tra l’uomo e la propria fine.

Avrei piacere che le mie opere suscitassero nel fruitore l’insorgere, per dirla con Aristotele, di “pietà e terrore” nel senso di indurre chi le guarda a riflettere senza sconti sulla propria fragilità e limitatezza, e questo in un secolo che si esibisce di continuo, nelle immagini dei media, come onnipotente e irrefrenabile, e dove la morte appare insensatamente, come quasi “un incidente” che ha necessità, ogni volta, di un responsabile. Io lascio che le figure che affiorano dal mio inconscio e che controllo come posso, attraverso le mie forme stilistiche, si situino nell’opera e si interroghino, interrogando a loro volta chi le guarda, sui concetti di esistenza, libertà, necessità, senso del limite, senso della vita e della morte. Richiedono, quelle immagini, proprio quella libertà riflessiva che è l’essenza della Katharsis, libertà che porti, alla fine di una evocata analisi introspettiva, il fruitore ad avere appunto “pietà e terrore” per la propria condizione tragica, a guardare se stesso nell’azione di esistere.

La considerazione della medesima sorte per ogni essere umano, dovrebbe portare alla necessità di un’azione comune consapevole, perché la condizione esistenziale non si estingua nella disperata rassegnazione paralizzante. La condizione del mondo che è oggi, di fatto, l’estensione equivalente di ciò che per l’antico greco era la Polis, dovrebbe indurci alla necessaria, costante, azione per mutarne le storture, e questo in nome della “humanitas”, l’ appartenenza all’unica specie consapevole della sua sorte infausta. L’arte implicitamente si esprime, quale fatto intellettuale oltre che estetico, affinché si guardi al mondo senza mai tralasciare “l’intento di mettervi mano”, per renderlo più giusto. Potrei dire dunque, che la mia pittura, oltre ad essere “essenzialmente realistica” perché lavora sulla autentica realtà dell’esistenza, senza una futile “mimesis” ormai pleonastica, e senza giochini penosissimi, si presenta consapevolmente come arte implicitamente e potenzialmente politica.

La storia, che è storia dell’azioni dell’uomo nel mondo, appare come bloccata sullo scenario di fondo di una concezione economica autoritaria ed iniqua. Le illusorie “migliorie”, aprono all’infinito contraddizioni insanabili nelle quali vanno affogando via via, ad ogni tornata elettorale, le socialdemocrazie del continente europeo in particolare, ma non solo. Il senso di una profonda ingiustizia diffusa continua a pesare. Un ‘arte che rinunci alla responsabilità, dilatando nel contempo una idea vuota, astratta, di libertà che di fatto, si riduce a libertà di autoannientamento e ad attività meramente masturbatorie, in quanto non investe, per rinuncia programmatica, per incapacità (non certo tecnica ovviamente), le vere tematiche cruciali quali l’esistenza, la sovrappopolazione, penuria e fine imminente delle risorse, le cause vere di migrazioni bibliche etc. e continui invece nel gioco insulso delle metafore sterili, delle simbologie non incisive sul concreto mutamento dello statu quo, sull’interrogarsi estenuato del proprio mezzo espressivo, o peggio, indulga alla stucchevole generica denuncia dei fenomeni sociali di cronaca, guardando da uno scranno miliardario, senza alcuna concreta presa di posizione, neppure estetica, ché la risposta estetica è quasi addirittura ridicola e maledettamente brutta,(voglio qui usare volutamente una parola bandita da tempo dalle manifestazioni d’arte contemporanea), come nel merito, di Ai Weiwei, che guarda caso, innamora tutti i “radical placcati d’oro” d’occidente, è un’arte che ha abdicato al suo ruolo (ma si vende benissimo a milioni di dollari! Ed è questo che in fondo conta…), e rimane però, ben al di qua del recinto e del suo limite apparente ma insuperabile, rappresentato dalla fune, che è fune “mentale” prima di tutto. Tutto ciò la rende però purtroppo, mortalmente superflua.

27/08/2018, Antimo Mascaretti

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