PROVE D’AUTORE (PER MANO SINISTRA) (XVI)

di Antimo Mascaretti

E.B.

Nel breve volgere di un trentennio, anche nel mondo dell’arte tutto è stato stravolto. Così resta persino difficile pensare all’esistenza di uomini come Emilio Bertonati.

Carattere schivo, ma non misantropo, architetto, artista, abile incisore, studioso e appassionato d’arte, Emilio Bertonati nacque a Levanto, ma dopo gli studi a Firenze, si trasferì a Milano dove, per breve tempo, fu anche docente all’Università. Nel 1962 inaugurò in Via della Spiga, la “Galleria del levante”, chiamata così in omaggio alla sua terra d’origine. Un Paese quale il nostro che ha sempre avuto il primato del conformismo ipocrita e bigotto di origine e matrice pretesca, con punte di isterica ostentazione, primato che tuttora detiene in Europa e forse nel mondo, negli anni sessanta era immerso, per quanto riguarda l’arte, ma non solo, nelle pastoie ideologiche e in un onanismo professorale di irrimediabile provincialismo. Bertonati prima che mercante d’arte nel senso tradizionale, fu un uomo che divenne gallerista per pura passione. Per lui essere gallerista significò investire sugli artisti, scoprirli e lanciarli, riscoprirli a suo rischio, se ingiustamente messi da parte, dimenticati o esclusi. Se si corre la cronologia delle mostre che la “Galleria del Levante” organizzò dal 1962 al 1980, senza trascurare l’attività, rilevantissima, della gemella galleria inaugurata a Monaco nel 1967, a Villa Stuck (sessanta esposizioni fino al 1982, anno di chiusura), asserire che Bertonati è stato solo l’artefice della riscoperta della Neue Sachlichkeit è ben riduttivo e ingeneroso.

Nella prima esposizione nel 1962, Bertonati presentò: “Klimt, Kubin, Kokoschka, Bauhaus”, dove già si può scorgere l’interesse per l’arte e la pittura che si riallaccia alla diramazione più profonda della radice europea. Nel ’63, presenta Georg Grosz, Herbert Bayer, Dada, Hannah Hoch, Felix Valloton (per la prima volta in Italia), e poi, negli anni successivi, Nabis-Pont Aven, Erté, l’Art Déco, Leon Bakst, Ranson, Carlo Carrà.

Dal 1968 ai primi anni settanta riscopre e ripropone persino in terra tedesca(!) quegli artisti che, tra le due guerre, lavoravano sul “realismo magico” e “nuova oggettività” : Georg Grosz, Christian Schad, Franz Radzivill, Rudolph Schlichter, Otto Dix, inquadrando però il fenomeno in un primo vero studio che permise di capire le ragioni di quell’arte, le poetiche diverse degli artisti, i rapporti con l’espressionismo. Per capire quanto ciò fosse necessario è sufficiente leggere il saggio di Mario De Micheli, ora contenuto in “Nuova oggettività, Germania – Italia 1920-1939” (catalogo della mostra a Milano, Palazzo della permanente, 1995, dove ancora si evidenzia che, nonostante il tempo trascorso, non si è tratto alcun giovamento dalla lezione di Bertonati, cui pure la mostra è dedicata, da parte di chi ancora evidentemente confonde l’espressionismo, la pittura e la società civile, per via di una precisa ideologia deformante, e dedica, come nel caso di quel catalogo, un testo solo all’ala cosiddetta “di sinistra” della Nuova oggettività, con ampia citazione di pittori che sono in verità, solo marginalmente e per pochi anni e con poche opere, in quella corrente artistica. L’arte tra le due guerre è fondamentale ancora oggi per comprendere quello che poi è avvenuto, il disastro del Nazionalsocialismo, la tragedia della totale distruzione, i massacri e i campi di sterminio, ed infine il successivo dominio dei vincitori che, con l’imposizione della loro “visione del mondo” a colpi di dollari, imposizione che ancora perdura, purtroppo, di fatto ha annientato la più autentica tradizione artistica del continente europeo.

Bertonati nel 1980 scriveva in un saggio, allora rimasto inedito: “…Ma se la Neue Sachlichkeit, anche nella sua ala “veristica”, respingeva da un lato il marxismo e dall’altro la civiltà tecnologica del capitalismo, quale era il segreto nascosto nella sua visione? La risposta può essere quella data da G.F. Hartlaub, il discepolo, che come direttore della Kunsthalle di Mannheim organizzò la prima mostra della Neue Sachlichkeit nel 1925. Hartlaub dichiarava che la Neue Sachlichkeit non rappresentava un punto di vista del tutto contrario all’espressionismo, ma piuttosto un’opposizione alle sue forme degenerate. Il rimedio a ciò fu visto come una visione meno utopistica, messo in una forma concreta e reso più realistico da un punto di vista pittorico, ma senza un totale abbandono della prima arte, come si potrebbe pensare, attraverso un “ritorno all’oggetto”. Fondamentalmente sembrava che per unirsi agli obiettivi del movimento espressionista originale fosse necessario rimuovere le ultime superstrutture formalistiche, con una fredda e profondamente meditata, ma solo apparentemente impassibile, visione.

Potente e ben protetto sotto la gelida e perlacea sicilificazione della Neue Sachlickeit, il fuoco espressionista ardeva ancora. Quando dopo la seconda guerra mondiale, il mercato dell’arte americana abbatté la sua massiccia offensiva sulla Repubblica Federale Tedesca, ci furono molti che dovettero soccombere: direttori di musei e collezionisti offrirono milioni di marchi per l’arte americana e furono persino costruiti nuovi musei. Una cosa è comune, certa: la struttura della produzione artistica in Germania non venne minimamente intaccata nei suoi aspetti più importanti, in altre parole, l’americanismo in arte non diede origine a nessun movimento significativo.

Potrebbe trattarsi della sopravvivenza dell’anima di Faust?”

Si può rilevare in quest’ampia citazione, tutta la consapevolezza di Bertonati di essere, con la passione ed il gusto, interamente su quel versante che, in ogni caso nel tempo, sarebbe stato travolto, e già si avviava a soccombere sotto la spinta di una concezione dell’arte che è del tutto estranea per noi, come la festa di Alloween.

Negli anni delle finte rivoluzioni studentesche, così profondamente piccolo-borghesi, farneticanti cambiamenti che, di fatto, non dovevano mutare affatto la struttura sociale, con tutta la retorica di una cultura “popolare”, Bertonati poneva l’attenzione con coraggio e determinazione, su artisti e movimenti che avevano radici in un periodo tra i più tragici della storia tedesca ed europea, e che avevano dato luogo ad una stagione ricca di fermenti e di personalità di rilievo in quegli anni del tutto abbandonati all’oblio del tempo.

Questa scelta di campo, rigorosa e coerente, permise anche di mettere in evidenza il grande influsso esercitato sulla Neue Sachlichkeit da parte di artisti italiani, dei gruppi di “Valori plastici” e “Novecento”, oltre che dalla “Metafisica” di De Chirico e Carrà, e mettere di nuovo in giusta luce artisti quali Cagnaccio di San Pietro, Edita Broglio, Galileo Chini, tutti di una qualità artistica fuori dal comune. Qualità che smentisce seccamente la diceria critica “autolesionista”, che si ostina a credere l’arte italiana di quel periodo, come “provinciale” e chiusa e quasi oppressa dal Regime fascista. L’arte italiana al contrario anche allora influenzò non poco correnti artistiche europee che poi divennero dominanti. Purtroppo, per quella lettura ideologica anche dell’arte oltre che della storia, che ancora gode diritto di cittadinanza in molti testi, nonostante gli studi accurati e approfonditi degli ultimi decenni, personalità di grande rilievo sono state messe da parte, mentre si è corso e si corre ad inneggiare scioccamente, dietro a “pupazzetti” di nessun conto venuti da oltre oceano dei quali non voglio neppure citare i nomi.

Uomo silenzioso, Bertonati, per motivi imperscrutabili, decise di essere solo passione, uno spirito finalmente del tutto libero, un’eterna brezza di primavera, nel 1981. Aveva 47 anni.

Come recita la voce fuori campo nel documentario girato da Faccini nei giorni conclusivi della mostra dedicata a Bertonati al Castello di Lerici, ed edito nel 2003, “Bertonati visse, e quando potè fu felice…”

(Continua)

15/02/2018, Antimo Mascaretti

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