PROVE D’AUTORE (PER MANO SINISTRA) (XVIII)
di Antimo Mascaretti
Jean Pierre Velly
“La vita è una storia meravigliosa che però finisce
Terribilmente male” (Jean Pierre Velly)
La chiave sono le incisioni. Nel senso che attraverso le incisioni Velly ebbe modo di giungere a Roma, vincendo il prestigioso “Grand Prix de Rome”, il primo e l’ultimo premiato, come lui stesso ebbe a dire con ironia, per l’incisione.
Per Velly, l’assegnazione di questo premio significò l’inizio dell’avventura fatata che durò all’incirca ventitré anni. Gli anni decisivi per il suo lavoro solitario.
Mi sforzo, come cerco di fare di solito, di decifrare con riflessioni appropriate il senso generale di un destino. Tuttavia è bene ricordare che non ho molta fede nella critica d’arte o di qualunque altra disciplina. Un simile lavoro, come quello del critico, è ben lontano dal mio interesse per l’arte che definirei d’aiuto esistenziale. Alle opere io guardo con un interesse bizzarro e non sistematico, meno che mai classificatorio.
Conosco l’opera di Velly dagli anni ’80 del secolo scorso. I numerosi scritti che ho avuto occasione di leggere sulla sua arte, scritti contenuti in vari cataloghi che ho rintracciato, scritti che definirei d’occasione per le varie esposizioni, “pesano” terribilmente sull’opera con tutta l’impalcatura letteraria che inevitabilmente racchiudono. Alcuni scritti sono di poeti, altri di scrittori anche molto famosi come Alberto Moravia, ad esempio. Tutti inevitabilmente si perdono in riferimenti eruditi. Tanta letteratura ben scritta, vecchio vizio e vezzo di chi scrive (ma forse oggi è forse meglio dire: “scriveva” perché non so neppure se ancora i quotidiani ospitino scritti d’arte come un tempo, e vi siano scrittori che si dedichino a scrivere di cose d’arte), non rende giustizia a questo pittore grandissimo, che rimane lontano da quegli scritti, sfugge a quelle considerazioni sia pure seducenti.
In quegli scritti Velly si rivela solo a momenti, attraverso piccole verità e grandi omissioni. Verità psicologiche soprattutto, ma ciò che più interessa, che vorremmo svelato, il senso vale a dire della sua arte, non c’è.
Un artista bretone capita, per fortuna, destino o caso che si voglia dire, a Roma e il suo cesellato mondo di chiara impronta romantica viene a confondersi, a fondersi in un’alchimia di aromi, piccoli esseri animati, atmosfere mediterranee. Il grande parco di Villa Medici, diventa il suo territorio d’osservazione per quasi quattro anni, il tempo che dura la sua residenza d’artista, in quella terra di Francia a Roma. La consapevolezza della sua arte ha così il tempo di trovar spazi nella sua psiche. Ora non è più soltanto un virtuoso in quell’antica tecnica, un abilissimo incisore di talento, ora, a Villa Medici, diretta in quegli anni da Balthus, si apre alla raffinatezza di un’arte terribilmente difficile e ardita: la sfida a carpire con mezzi semplici, matita, acquarello, tecniche miste su carte antiche e stropicciate volutamente fino allo sfinimento, e lavorate incessantemente alla bisogna, il significato, se c’è, del vivere e morire.
Sorprende in Velly la determinazione senza mai tentennamenti, nell’essere artista alla maniera classica, un pittore e incisore che continua l’indagine sulla bellezza naturale, quasi che i fermenti del secolo che pure ribollono a lui vicini, non lo tocchino minimamente.
Nella sua formazione accademica prima a Tolone e poi a Parigi, negli anni che furono gli stessi delle rivolte studentesche, il nostro pittore non sarà certo stato immune da contatti con le nuove idee, quelle idee di una rivoluzione culturale che illuse una intera generazione. Inoltre, a Roma, negli anni di Villa Medici, Velly non avrà certo ignorato le idee di quegli artisti che ogni giorno si ritrovavano non molto distante, nei caffè di Piazza del Popolo, in quell’estemporanea accademia anticonformista più negli atteggiamenti, nelle “pose” in verità, che nelle opere realizzate. Quella allegra compagnia che sarà definita, certo con grande enfasi ed esagerazione, la nuova “Scuola Romana”, di Schifano, Festa, Angeli, e tanti altri che movimentavano con insofferenza la stantia maniera di dipingere nell’Italia di allora.
Eppure dalla ricchezza di quei fermenti culturali, nulla sembra essersi fermato negli occhi e nell’animo di Velly, già così determinato nella scelta di un’arte imperturbabilmente rivolta alla lezione della tradizione da una parte, e a ciò che non muta, né mai muterà nella natura, dall’altra.
Alla fine del soggiorno a Villa Medici, Velly decide di stabilirsi in Italia. Scopre così un luogo per lui ideale per vivere, una casa a Formello. E’ probabile che in quella scelta avrà avuto un peso determinante l’incontro intanto avvenuto con De Marsanich, a quei tempi animatore geniale della Galleria Don Chisciotte di Roma.
De Marsanich non fu mai solo un gallerista in senso classico, animato vale a dire da puro spirito mercantile. La sua passione per l’arte lo spingeva spesso a legarsi d’amicizia profonda con quegli artisti che andava scoprendo e proponendo, e ciò accadde anche con Velly.
Da questo sodalizio intellettuale Velly ricaverà esposizioni memorabili del suo lavoro “anacronistico” in apparenza, se misurato col metro profano delle idee del tempo che sono in arte, scintille nel camino.
Mio Dio, come è difficile trasformare in parole ciò che è già nascosto nei segni di un altro linguaggio! Così stenografiche notazioni biografiche non mi aiuteranno di certo a far chiarezza sul grande lavoro di un artista che pure, ha l’abilità di mostrarsi senza artificio di sorta. L’arte è difficilmente penetrabile senza una grande determinazione ed un grande sforzo.
Molte delle cose più belle di Velly si trovano già nel “Bestiaire perdu”, una pubblicazione davvero rimarchevole del 1980, della galleria Don Chisciotte. Versi poetici proiettano il realismo da anatomista scrupolosissimo, in metafore esistenziali. In tal modo viene rivelato un gioco di assonanze e rimandi tra esistenze, solo in apparenza lontane e trascurabili, di piccoli esseri di solito ignorati, e l’esistenza umana.
La natura è indagata da Velly impietosamente. Di solito egli si sofferma ad osservare il momento della macerazione e putrefazione, che non appare evidente ancora, ma che è necessaria prima di ogni infinita rinascita, il caos segreto e magico, dell’inarrestabile rinascita, è accettato senza emozioni, con pazienza e fermezza.
Velly sa bene che ci sarà la fine per ogni essere che ora vive, non importa quando, ma l’artista conosce bene che saranno possibili rinascite infinite in seno alla natura imperturbabile, che tutto ingloba, travolge, macera, sconosciuta ed oscura. Qui, nelle opere di Velly si può constatare l’indagine amorevole, un puntiglio di passione dichiarata.
Mi sono trovato spesso a invidiare Velly nella sua capacità di accettazione della fine senza timori, per il suo coraggio di vivere in semplicità senza piani a lungo termine, continuamente interrogando in solitudine (una solitudine ben custodita dalla sua famiglia), il perché di certi accadimenti, pur accettando a priori e senza condizioni, l’assenza delle risposte.
La vita appare una infinita sequela di piccoli scheletri, ostaggio di un destino ignoto, una sequela ammirata negli infiniti dettagli. La vita è continua perdita d’essere che non si può fermare neppure per un istante, non si può isolarne un momento da tutti gli altri che seguiranno, nemmeno in una visione individuale ipotetica, senza perdere l’essenza stessa del suo fluire e con ciò, il suo segreto.
Tuttavia la scomparsa di un piccolo essere, che è l’oggetto di osservazione ed anche il soggetto dell’opera che è in divenire, non è che un momento del rinnovamento del tutto, e non c’è contrasto in ciò: si dipinge e si disegna il piccolo per raffigurare l’universo e il suo scorrere eterno in forme nuove.
C’è assenza di movimento nelle opere di Velly. Il divenire è sorpreso dall’immobilità di un altro mistero, quello dell’arte. Il vento non muove le foglie e i fiori nel loro appassire muto. Il vento è assente persino nell’ opera che si intitola “la grande tempesta”, l’oggetto della pittura è sempre l’osservazione della morte in opera, la morte posta come su un vetrino da laboratorio che tuttavia, lascia nel suo avvicinamento, una bellezza struggente da cogliere e godere come si può, anche se sappiamo, noi soli esseri privilegiati per questo, e ad un tempo dannati, che quella bellezza sublime non potrà mai consolare.
Velly partecipa con l’animo proprio della visione romantica, dell’incessante rinnovarsi della natura, dove la morte non è mai dramma ma accidente “necessario”, agente imprescindibile di ogni possibile palingenesi in altre, inusitate forme. L’artista osserva i suoi soggetti, con cuore e animo solidale, e nello stesso tempo, con l’occhio impassibile dell’entomologo che mette in evidenza ogni dettaglio morfologico, alla maniera di un altro grandissimo pittore e incisore della tradizione nordica: Durer.
E’ un continuo riandare dall’universo, dal cielo stellato, ma oscuro e impossibile da catturare col solo sguardo, al piccolo essere inerme che si spegne nell’indifferenza distratta della natura, madre e “matrigna”.
Ripercorrere l’opera di un pittore scomparso da decenni è avventura in apparenza, senza difficoltà. Ma nell’osservare le opere, i dipinti, i disegni di Velly, si ha subito un senso di smarrimento. E’ come se queste opere, mai gratuite, non dettate da esigenze di mercato, ci spingessero a guardare indietro, molto indietro nel tempo.
Velly è un autore che non ha più il tempo per la sua esistenza e non ha alcun riferimento col tempo storico che pure ha vissuto e per quasi metà della sua vita, a Roma ed in Italia.
Queste opere sono di chi ha occhi per vederle in uno spazio mentale che presuppone anticonformismo, e in gran misura. Opere che contengono nella tecnica la migliore tradizione occidentale e nello spirito, rivelano un’anima non catturata dalla banalità e peggio, dalla retorica sessantottina e successiva, e neppure dall’animo da bottegai avidi e cinici, che è malattia mortale assai diffusa nei nostri giorni.
Velly ha la felicità della visione di chi guarda lontano e indietro nello stesso tempo, di chi ha molto da dire sul contatto per lui quotidiano, con l’assoluto.
Se non si possiede quella vertigine, si è condannati alla cecità e al continuo stupore rispetto alle verità del mondo (beoti che applaudono ad esempio, nella retorica convenzionale di un triste funerale cattolico), che sono quelle che ogni giorno sentiamo recitare in video.
Non si è che ospiti precari su questa terra, e soggetti alle leggi di natura che pure non comprendiamo, ma che incessantemente ci rinviano ad altre regole, regole immutabili, non le sciocche convenzioni che l’uomo, di volta in volta, con disperazione, si crea per dare ordine, un ordine illusorio, nel tentativo di arginare la forza del male che ammorba in ogni accidente, la vita di qualunque esistenza.
Questo ci mostra insistentemente Velly, instancabile nel dipingere l’immobilità apparente della putrefazione. La precisione anatomica aumenta l’evidenza del dolore, anche nella raffigurazione dei nudi, non c’è vibrazione erotica, ma la precisione dettagliata di chi guarda all’universale. Velly dipinge una constatazione d’esistenza, prediligendo di solito il piccolo, il minuto.
Pittore molto colto, Velly può trarre in inganno per i riferimenti poetici, per le sue illustrazioni delle poesie di Corbiére, ma non c’è artista più essenziale nella scelta dei soggetti, né nella maniera diretta di raffigurarli con mezzi semplici, quasi da artista orientale. Mezzi che potremmo definire poveri, elaborati però in una tecnica che contiene tutta la forza della pittura della tradizione occidentale.
L’avventura di Velly continua a Formello, per alcuni anni. Velly lavora incessantemente, sembra aver fretta nel percorrere tutta la parabola del suo mondo interiore, in opere straordinarie. Le esposizioni, poche se rapportate ad un paio di decenni, ci regalano capolavori assoluti anche se per lo più ignorati. Destino dell’arte che necessariamente parla a pochi.
La fama non lo lusinga, scrittori e critici, e molti amatori d’arte possessori di importanti collezioni, arrivano a Formello in pellegrinaggio, ma il cartello in lingua italiana “qui non si tocca niente”, posto nel suo laboratorio, ricorda il “divieto di caccia” all’ingresso di ogni riserva, e fa pensare ad una difesa preventiva.
Che il trascorrere lento ma devastante del tempo fosse l’unico vero soggetto di tutta l’opera di Velly, oggi lo si capisce in maniera chiara. Il progetto del destino ha necessità di sedimentare per anni prima di rendersi intellegibile e il caso in esame, è un perfetto esempio della necessaria attesa, resa più lieve dalla bellezza.
Trovo che i migliori “autoritratti” di Velly siano quelli che lo identificano meglio con l’aspetto dei piccoli animali pazientemente raffigurati. In opere come “pipistrello” (1980), “lacrime di pianto” (1980), “civetta” (1980), “segno di polvere” (1980) c’è delineata luminosamente la parabola accettata della vita, la sua personale esistenza, di cui doveva oscuramente presagire la brevità.
La vita che dà e che toglie, lo sottrasse con la sua poesia rivelatrice privilegiata di verità, di solito inaccessibili, inghiottendolo nelle acque scure del lago di Bracciano. Era il 1990. Velly aveva 47 anni.
(continua)
28/02/2018, Antimo Mascaretti
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