TECNICHE DI RISVEGLIO PER ATHENA (XIX)

di Antimo Mascaretti

( continua…)

Il suo appare come un sogno di un visionario, di un artista, ma anche a ben guardare, di un politico…

Forse. Certamente c’è una gran parte di Europa che deve finalmente fare i conti con la storia, la propria storia, senza più inutili sensi di colpa. Mi riferisco al passato artistico, ma ciò presupporrebbe un necessario approfondimento della storia sociale e politica. Se si vuole realizzare, in un futuro che non sia troppo lontano, una vera Europa federale, ogni Paese, dovrà essere consapevole del suo vero ruolo non più condizionato e frenato dalle vecchie ideologie che ancora grossolanamente dividono vincitori e vinti, anche se, ipocritamente, nessuno ne parla. Tutto questo nella consapevolezza senza più complessi, della grande tradizione che ogni popolo ha avuto in eredità, e questo per la valorizzazione delle diversità, ricchezza incommensurabile di ogni Paese, non in una prospettiva scioccamente nazionalista, ma per la realizzazione di un nuovo organismo politico-sociale, vero e vivo, dove ogni diversità sia autentico arricchimento. Non ci si può appiattire solo sull’ Europa delle economie, per di più pesantemente condizionate da altre istituzioni extra europee… strumenti dell’ingerenza evidente degli Stati Uniti. Mi piace pensare ad una Europa che sia finalmente qualcosa di diverso e molto distante sul piano politico e soprattutto culturale dagli Stati Uniti, dall’ influenza nefasta del loro modello politico, economico, ed esistenziale, che si è rivelato un cancro antropologico.

L’ Europa deve finalmente essere tale da Gibilterra agli Urali, perché solo in quella prospettiva le vecchie ideologie saranno messe da parte, e nuovi rapporti di dimensioni e valori potranno essere instaurati tra i popoli non certo per una politica egemonica. Riesce ad immaginare un’Europa che includa la Russia? Eppure anche la Russia è Europa, e tanta parte ha avuto in secoli di storia di questo continente. Riesce a pensare le mutazioni che si determinerebbero sul piano politico, militare, economico, culturale? L’Europa potrebbe guidare una nuova epoca di grande sviluppo, inglobando la maggior parte dei Paesi più evoluti ed industrializzati, finalmente senza più influenze nefaste di chi mira soltanto al mantenimento di un impero, di una supremazia ormai impossibile sotto ogni punto di vista. Così mi piace sognare.

Nella storia dell’arte del continente europeo, nell’architettura, nella letteratura, nella poesia, nella pittura, per centinaia di anni, nei fermenti artistici, nelle singole personalità, nei movimenti, nelle influenze reciproche, tutto questo già è avvenuto, perché non può tornare a vivere nuovamente in un nuovo organismo politico finalmente non condizionato? Bisognerà, perché ciò possa realizzarsi, riuscire a guardare il passato senza più diffidenze generate dagli esiti del secondo conflitto mondiale. A mio modo di vedere, quelle antiche diffidenze ancora permangono.

Nelle pagine di questo dialogo, capita di rilevare un costante riferimento alla storia nel suo farsi, agli avvenimenti contemporanei, non ritiene che sia un “rischio” per l’artista intervenire in qualche modo nelle vicende politiche? Scelte di questo tipo non metterebbero a rischio la sua autonomia d’azione?

Non auspico in realtà, un intervento diretto. L’esperienza storica a questo proposito ci mostra come la commistione di politica ed arte, quando l’arte si riduce a docile strumento della politica e del potere, ha prodotto opere fiacche e spesso molto retoriche, pur in regimi di natura diversa, ma ciò non significa che l’artista, pur mantenendo la sua libertà, in quanto uomo di cultura debba essere indifferente alle vicende politiche, almeno sul piano etico. Nello studio delle avanguardie storiche ho rilevato che l’espressionismo (con aspetti antitetici, riguardo alla collocazione politica di alcuni artisti) e soprattutto il futurismo, hanno avuto chiara consapevolezza della necessità di un saldo connubio tra azione artistica e azione politica particolarmente nella sua fase “rivoluzionaria” (Antonio Gramsci riconosce espressamente nei suoi “quaderni”, la funzione rivoluzionaria assolta dai futuristi).

Il futurismo non teorizzava un’arte al servizio di una idea politica, ma l’ideazione simultanea di arte e politica nella visione di un mutamento totale dell’esistenza. Un’arte che avesse nella politica sostegno e ad un tempo, lo strumento attuativo concreto, del cambiamento, e una politica che si giovasse intelligentemente delle grandi intuizioni del genio degli artisti (intuizioni a volte, veramente avveniristiche dei nuovi tempi). Scrive in proposito Monica Cioli nel suo “Il fascismo e la sua arte –dottrina ed istituzioni tra futurismo e Novecento”: “ …Per il futurismo non si trattava soltanto di catturare il movimento nell’arte –di trasmettere insomma quella morale di cambiamento…ma nella convinzione di essere il movimento rivoluzionario per eccellenza, appunto all’avan-guardia, questa esigenza coincideva con la necessità di “performare” attraverso le opere d’arte, …una élite di tecnici, “la classe dirigente”..

…E’ in questo senso che si deve parlare di politicità futurista e su questo punto fondamentale si sono incontrati futurismo e fascismo: Il filo rosso che ha tenuto in vita il loro legame è stato infatti quello di una tensione rivoluzionaria, modernizzatrice, che è sempre rimasta tale durante il loro lunghissimo rapporto. Al centro dell’ambiziosissimo progetto della formazione della “tecnica”, il futurismo e il fascismo hanno fatto riferimento a due elementi altrettanto ambiziosi e rivoluzionari, come la scienza e l’arte.”

Purtroppo, anche per la buona dose di utopia presente sia nel futurismo sia nella fase “rivoluzionaria” del fascismo, lo slancio futurista non trovò concrete possibilità di realizzazione.

Va però messo in evidenza come quella via nuova (non praticata concretamente), avrebbe veramente potuto incidere sugli avvenimenti stravolgendo intanto una visione dello Stato e delle istituzioni di vecchio stampo, quel liberalismo sostanzialmente ottuso e conservatore (ancora vivo e vegeto), in maniera positiva ed innovativa.

Nella ipotesi di un tentativo quanto mai auspicabile e necessario, per cercare di venir fuori dalla strada senza uscita in cui ristagna quella che viene chiamata comunemente “arte contemporanea”, credo diventi indispensabile ripensare, attualizzandole, vecchie esperienze come il futurismo ed anche l’espressionismo tedesco. Quelle due avanguardie che non escludevano l’azione politica dall’esperienza dell’artista, presentano elementi tuttora vitali per molti aspetti.

Purtroppo, l’aver superficialmente e con un falso storico grossolano, appiattito il futurismo nel concetto di “arte del regime” (stupidità ideologica, la stessa che è arrivata persino a deturpare murales di grande rilievo, come nel caso di Sironi, sciocchezze che nessuno ha mai effettuato nella storia (tranne in quella recente in medio oriente) ha fatto accantonare troppo precocemente, ritardando anche gli studi specifici, un ripensamento critico di quella esperienza che forse avrebbe permesso all’arte italiana una evoluzione finalmente originale. Si è preferito scelleratamente, favorire un conformismo stucchevole e noioso nei risultati che non necessitava però, di un cambiamento nella visione ed interpretazione dei fenomeni artistici dell’ultimo mezzo secolo e che ci vede allineati alle “novità” altrui, da magnificare con enfasi e che spesso non sono che uno spettacolo indecente di basso tenore per intrattenere un pubblico di grassoni con poche esigenze.

Si tratta di ridiscutere seriamente il ruolo dello stesso artista, relegato suo malgrado (ma spesso con consapevole complicità) ad una continua esibizione della propria impotenza.

Senza questa necessaria opera di ricollocazione, meglio sarebbe abbandonare l’attuale ruolo di lacchè dell’arte dei nuovi barbari.

Io pongo la figura dell’artista “nuovo” tra l’attento recupero di quanto è ancora vivo delle esperienze del passato, non semplicemente con la semplice e leggera “traversata” transavanguardista mediante la “citazione”, che è tutta sommersa ideologicamente nel concetto a mio avviso inutilizzabile del postmodernismo, bensì con un approfondimento attivo nella ricerca sperimentale dello spirito originario, attraverso una necessaria capacità visionaria. Un artista non più dedito alla noiosa “costruzione mentale” di un evento al quale aggiungere un predicozzo finale stantio su argomenti triti e ritriti: la pace, le migrazioni, l’inquinamento e i mutamenti climatici, la relazione maschile/femminile, ed altri argomenti simili che sono a guardar in fondo, cristalli di ipocrisia insopportabile in una concezione etica dell’uomo completamente priva di fondamento, o meglio, fondata su una ideologia che più di tutte ha fatto il suo tempo e che viene tenuta in vita per “comodità”, in maniera cioè di poter perdurare l’immobilismo che ci ha strangolato nei secoli. Liberarsi dalle religioni costituite (particolarmente dalla cattolica) appare oggi altrettanto necessario e urgentissimo, come l’affrancarsi da irritanti sciocchi sensi di colpa del tutto infondati. Le religioni costituite non incarnano più da tempo il senso del divino, ma unicamente un coacervo di potere e di interessi condizionanti una società che ha bisogno di una rifondazione totale senza quelle ridicole credenze.

Oggi non si può fare a meno di constatare che l’artista è preso da un’ansia di notorietà malata, eclatante ed insensata, ottenuta con espedienti da rotocalco, ma con un’opera realizzata spesso modesta e che rappresenta l’ennesima variante di trovate vecchie e morte, camuffate da quel “nuovo” spasmodicamente ricercato come finalità unica del proprio opera.

La mia idea dell’arte si fonda su una imprescindibile visione dell’artista, che ha le sue radici come è naturale, nella storia dell’arte che ci ha preceduto, senza per questo essere citazione colta ma opposizione o continuazione originale, non necessariamente finto “progresso”. L’arte è principalmente e fondamentalmente ciò che l’artista è ancora capace di “mettere in forma” senza più poter essere “ingenuo” e leggero. Qualcosa che può ritrovare soltanto nel suo spirito creatore.

La sostanza dell’arte, l’oggetto della mimesi, intesa come “rappresentazione conoscitiva”, non è esclusivamente al di fuori dell’occhio ma, e forse in maggiore misura, dietro l’occhio di chi agisce con tutte le implicazioni che comporta.

Neppure la pura conoscenza scientifica fa del tutto a meno dell’immaginazione, meno che mai ciò può avvenire nell’ambito del processo di conoscenza artistica.

Nella mia esperienza, il mondo assai complesso dello spirito individuale così come nel tempo si è sviluppato e manifestato, rappresenta la chiave per un passaggio verso un mondo totalmente ignoto che può essere intuito nelle sue verità soltanto mediante l’atto artistico.

La mimesi dunque, anche nella riduttiva interpretazione di “riproduzione” mantiene una sua verità profonda perché appare imprescindibile nel processo di illuminazione di aspetti ignoti riflessi dall’anima dell’artista, solo che in questo caso non è più imitazione di un qualcosa di esterno ma riguarda aspetti psichici a volte molto vicini alla patologia. Un processo comunque che non può non definirsi che una diversa maniera di conoscenza.

La pura definizione di “imitazione” o “riproduzione fedele” nel processo mimetico non può mai escludere l’apporto soggettivo, di chi agisce sul supporto o in qualunque altro medium.

L’imitazione è rozza quando la si immagini unicamente come “abilità alla copia” ma questo concetto esprime solo un’astrazione perché la copia fedele, sia pure di un qualcosa di esistente in natura, cade al di qua dell’esperienza artistica che ha ben altre ambizioni.

La copia è solo il risultato di una imitazione del procedimento artistico già avvenuto nel tempo.

In realtà, chi esegue una copia tenta di porsi passivamente (cioè senza aggiungere all’opera riprodotta alcunché di appartenente alla propria soggettività), all’interno di un procedimento già avvenuto molto tempo prima, quindi è il procedimento originario dell’artista il vero oggetto della mimesi. Nel caso, tutto questo non interessa la sfera artistica se non marginalmente ed esteriormente e solo in apparenza.

Il problema autentico, e di difficile soluzione, per l’artista che pone il “nuovo” nell’atteggiamento mentale e nell’indagine anziché nel risultato, consiste nel superare l’assenza totale del desiderio di approfondimento da parte dell’eventuale osservatore di ciò che rappresenta il processo profondo di indagine che ha portato all’opera, cioè alla conoscenza, e ciò malauguratamente, per la nota “inflazione” delle immagini.

L’opera d’arte finisce per essere presente come una enorme tavola imbandita, ricca di ogni buon cibo, offerta però, insieme a tante altre tavole imbandite di cibo scadente o adulterato, a chi è comunque già sazio e da tempo non sa più cos’ è il senso della fame.

Questo è un problema molto serio che certo, non può essere superato con l’eccentricità, l’incantamento dell’allestimento, la trovata, come invece, sembrano pensare molti artisti contemporanei.

Insomma, non si tratta solo di un problema di strategie di vendita ma di qualcosa di molto più complesso.

(Continua)

17/07/2017, Antimo Mascaretti

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