TECNICHE DI RISVEGLIO PER ATHENA (XXIII)

di Antimo Mascaretti

( continua…)

Oggi nell’epoca dell’estetizzazione di massa, non si registra un aumento “qualitativo” dell’esperienza artistica totalizzante come poteva ancora avvenire ad esempio nell’evento del teatro greco, dove la polis finiva con l’identificarsi con il coro, oggi, è possibile solo un aumento “quantitativo” dell’oggetto ritenuto artistico a posteriori, a dispetto della sua significatività.

Così non può non crearsi un aumento della distanza tra oggetto artistico o presunto tale e la comprensione dello stesso. E’ certamente possibile che un numero, anche significativo, di persone partecipino ad una mostra o siano in fila davanti ai musei, ma con atteggiamento ludico che non richiede necessariamente comprensione. La successione degli eventi e delle esposizioni è così rapida che nulla rimane non solo nell’interiorità ma neppure fugacemente sulla retina dell’avventore.

La realtà, sempre più incomprensibile per tutti, tende ad identificarsi con il momento artistico che presenta la stessa incomprensibilità se possibile ancora più dilatata, e tutto questo (ed è ciò che più conta), nell’insensibilità, nella passività indifferente verso quanto accade nell’arte e nella realtà ormai coincidenti.

Ma a giudicare da ciò che è presente in ogni tipo di media, si avverte, al contrario, un’enfasi, una emotività continua, un utilizzo spropositato di termini quali dramma, tragedia, etc.

Su temi ed avvenimenti della contemporaneità sia riguardanti il sociale, sia il piano più propriamente individuale, i media pervicacemente utilizzano senza alcun limite, parole ormai “fuori corso”, parole del vecchio “umanesimo” illuminista occidentale, parole fondanti la nostra stessa civiltà e un tempo cariche di significato. Ma i valori fondanti quella civiltà sono stati di fatto, in ogni aspetto e in tutti i modi, esecrati, ripudiati, distrutti, condannati.

Quelle parole sono senza un significato riconoscibile: Emozione, dramma, solidarietà, umanità, religione, nazione, patria, stato, democrazia, ragione, razzismo, sono solo fonemi falsi che possono eccitare ma limitatamente, come i sex toys…

Quelle parole potevano ancora avere un senso in una realtà (ormai del tutto scomparsa), quale quella vissuta dai nostri padri e per i più giovani, dai loro nonni. Concetti e categorie non più coincidenti in nulla con una mutazione comportamentale ed etica ormai da tempo in atto, dove riconoscibile è solo la violenta destabilizzazione del corpo sociale.

L’arte è, e non potrebbe essere altrimenti, parte integrante di questa perdita di significato progressivo di ciò che è stato a fondamento di una antica tradizione, ed è come un sontuoso fuoco d’artificio alla fine della festa. Qualcosa di inutile e costoso, un giochetto per adulti, innocuo nella sua vacuità.

Si vive nell’attesa, nell’effimero, nell’improbabile. L’arte vive in visioni complesse e durature quando il tempo contingente ha avuto modo di cristallizzarsi insieme all’idea imprigionata nella forma. I nostri giorni non sono i più adatti a queste metamorfosi, ed infatti, la nostra idea di arte è misera come le nostre esistenze, ma nulla impedisce che nel rifiuto vi possa essere una possibilità di resurrezione, ecco perché l’arte, se ancora ha senso utilizzare questa parola falsa e abusata e priva di autentico riferimento trasmissibile, esige il rifiuto, la clandestinità, ogni possibile resistenza.

L’arte ambisce a ritrovare un suo linguaggio che non sia il fine ma il presupposto della creazione, e con il linguaggio ambisce tornare ad esprimere autentiche passioni, dolori, sentimenti, armonie e bellezza, ambisce a svelare l’umano, non il filisteo, il cattolico-apostolico, l’ebete seriale, il vuoto a perdere domenicale, il piccolo conformista con il suo numero in mano, il cretino condannato a sua insaputa solo a consumare. Per tutti costoro, ammesso che abbiano esigenze d’arte, è sufficiente un videogioco, o in generale, il nulla angloamericano codificato, qualche smartphone di ultima generazione (ma mi raccomando, che abbia una magnifica risoluzione fotografica per le banalità, così difficili da rendere…)

Due aspetti presenti nell’arte contemporanea, da una parte la tendenza alla creazione di una “opera d’arte totale”, dall’altra l’atteggiamento dell’artista a ricoprire piuttosto un ruolo di regia, sfruttando la capacità realizzative artigianali altrui, anziché creare in prima persona il suo lavoro, come leggere questi fenomeni?

Circa il ruolo dell’artista in qualità unicamente di organizzatore e “regista” del proprio lavoro realizzato però, in concreto, da altri tecnici o artigiani, va ricordato che ciò trova dei precedenti anche nel periodo rinascimentale ad esempio, dove non era affatto raro che l’artista si servisse di altri artisti e artigiani specialisti per la realizzazione materiale di una commessa della quale si limitava ad ideare il progetto o ad eseguire i cartoni preparatori. A volte gli aiuti intervenivano anche in alcune parti dei dipinti. Oggi, è sempre più frequente che l’intero lavoro venga realizzato dagli artigiani, specialmente nei casi di uso delle gomme siliconiche atossiche (body sil), gomme tixotropiche che vanno applicate a pennello o a spatola per la riproduzione perfetta di parti del corpo umano ad esempio. Tutto ciò non deve però meravigliare, siamo in un’epoca in cui tutto il lavoro artistico “materiale” è molto svalutato e ciò che conta è soltanto l’idea di una realizzazione. Chi poi la esegua materialmente e quando, non ha nessuna importanza.

Il lavoro di esecuzione è visto sempre più come “perdita di tempo”, da parte degli artisti, spesso del tutto incapaci di eseguire di fatto le loro presunte “creazioni”.

Non condividendo in assoluto l’equivalenza: opera = idea, non condivido ovviamente tutto ciò che ne consegue. Trovo anzi, in questa abitudine comunemente accettata, un altro preciso sintomo di decadenza rispetto alla concezione dell’arte come momento alto dello spirito in cui continuo a credere.

Quando alla tendenza verso “l’opera d’arte totale” (Gesamtkunstwerk), occorre distinguere tra due diverse interpretazioni di quel concetto. Di solito si intende la distruzione o la fusione delle varie arti in un’unica rappresentazione che tutte le realizzi al massimo grado. Questa è la concezione che ritroviamo in Richard Wagner, che tentò di realizzare questa idea nelle rappresentazioni teatrali delle sue opere liriche. Un altro esempio di fusione di diverse arti che mi viene in mente fu la rivista “Ver Sacrum”, del periodo della Secessione viennese, ma ci sono moltissimi altri esempi che si potrebbero citare del periodo dello Jugendstil.

Con la stessa definizione di “opera d’arte totale”, si intende però, anche il tentativo di ridurre la distanza che intercorre tra opera d’arte e realtà, e questa credo sia la forma più vicina a noi, nell’interpretazione di quel concetto.

Da tempo infinito nell’arte moderna e contemporanea si tenta la riduzione se non l’annullamento tra ciò che è realizzazione artistica e realtà, negli ultimi decenni la distinzione si è fatta tanto sottile da annullarsi completamente. Ciò credo possa spiegarsi agilmente nella constatazione obbligata di una realtà inconsistente che ci circonda che si fonde a confonde in opere altrettanto poco identificabili, in una sorta di reciproca “giustificazione” e mutuo sostegno.

Tutto ha inizio con le avanguardie storiche del primo Novecento e si ripete per tutto il secolo scorso fino a radicalizzarsi nell’opera contemporanea.

C’è chi ritiene (Odo Marquard) che il concetto di opera d’arte totale possa essere fatto risalire alla filosofia dell’idealismo tedesco, in particolare al sistema di identità di Schelling, che in un famoso passo scrive: “ Mi limiterò ancora ad osservare che la più completa mescolanza di tutte le arti, quella che sintetizza a sua volta in sé l’unione di poesia e musica nel canto e di poesia e pittura nella danza, si ha in quella complessissima composizione teatrale che fu il dramma antico; del quale ci resta solo una caricatura nell’opera. Quest’ultima peraltro, ove se ne elevasse e nobilitasse lo stile tanto della poesia quanto delle altre arti che concorrono a costituirla, sarebbe la più acconcia a resuscitare sulle scene il dramma antico accompagnato da musica e da canto”. Qui appare in tutta chiarezza, la visione della futura concezione wagneriana.

Il secondo modo di intendere il termine “Gesamtkunstwerk”, più vicino alla nostra realtà di oggi, necessiterebbe di molti approfondimenti perché è un punto “dolente” che si ritrova nel pensiero e nell’opera di molti artisti contemporanei e permette di esaminare aspetti anche al di fuori dell’arte (penso ai tanti giovani e non giovani, che vivono una “vita di fantasia”, raccontando fandonie su Facebook ad esempio), che illustrano la decadenza in cui si trova da tempo l’Occidente.

Nella distanza necessaria tra arte (finzione, rappresentazione) e realtà pongo un limen che permetta di distinguere gli artisti della nostra epoca tra coloro che continuano in una concezione “classica” dello spazio e chi invece, sente la necessità, per comprendere il nostro essere attuale, di annullare quella distanza. Un artista “classico” in questo senso è stato Francis bacon, che esigeva addirittura che i suoi lavori venissero assolutamente messi in cornice, proprio per rimarcare la distanza tra opera e spazio circostante, pretendeva anzi, per accentuare l’isolamento dell’opera, che venisse posto anche il vetro!

(Continua)

28/08/2017, Antimo Mascaretti

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